Le cose sono cambiate. Un estratto da “L’Acciaio Sopravvive” di R. K. Morgan | minima&moralia

2022-10-10 11:10:11 By : Ms. Grace Hu

di minima&moralia pubblicato domenica, 27 Febbraio 2022 · Aggiungi un commento 

Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro L’Acciaio Sopravvive di R. K. Morgan, a cura di Edoardo Rialti.

«Sei venuto a trovare me, eh?» mormorò Milacar più tardi nel grande letto dalle lenzuola di seta, al piano superiore, dove stavano rannicchiati, esausti e devastati, poggiati sulle rispettive cosce come cuscini. Si sollevò leggermente, afferrò i capelli di Ringil dietro al collo e gli avvicinò il viso, con teatrale brutalità, verso i suoi genitali flosci. «Col cazzo! Sei un bugiardo nato, aristocratico sacco di merda, Gil, sempre lo stesso.» Attorcigliò le dita intorno alla peluria sulla nuca, dolorosamente. «Come quando sei venuto da me quindici fottuti anni fa, giovane Eskiath.»

«Sedici.» Ringil si picchiettò il pugno dell’altro sul collo, intrecciò le dita con quelle di Grazia, si portò alle labbra il dorso della mano dell’altro. «Avevo quindici anni, ricordi. Sedici fottuti anni fa, e non chiamarmi così.»

«Chiamarti come, giovane?» «Eskiath. Sai che non mi piace.» Milacar liberò la mano e si sollevò un po’ puntellandosi sui gomiti, guardando il compagno più giovane accoccolato vicino a lui. «È anche il nome di tua madre.»

«Lei l’ha sposato.» Ringil stava col viso poggiato sulla calda umidità dei genitali di Milacar, lo sguardo perso nel vuoto dell’oscurità vicino alla porta della camera. «È stata una sua scelta. Io non avevo altrettanto.»

«Non sono convinto che anche lei abbia avuto molta voce in capitolo. Quanti anni aveva quando l’hanno data in moglie a Gingren, dodici?»

Un breve silenzio. Lo stesso bagliore fioco dell’Arcoluce in sala da pranzo qui si riversava senza incontrare ostacoli, un gelido fascio che filtrava dall’ampio balcone affacciato sul fiume e si stendeva da un capo all’altro del pavimento ricoperto di tappeti. Le finestre erano spalancate, i tendaggi si muovevano come languidi fantasmi, e una fresca brezza autunnale soffiava nella stanza sfiorandoli entrambi. Non era ancora l’aria di montagna fredda e pungente di Acqua della Forca, ma cominciava ad assomigliarle. L’inverno l’avrebbe scovato anche qui. Ringil cambiò posizione, la carezza del corpo dell’altro gli aveva fatto venire la pelle d’oca, la peluria dritta sulle braccia. Inspirò il profumo acre e affumicato di Grazia e quello lo trasportò indietro nel tempo, a oltre dieci anni prima, come una droga. Alle risse ubriache e alle notti a base di flandrijn a casa di Milacar in via dei Carichi nel distretto dei magazzini; lui che si tuffa- va sospettoso in tutta quella decadenza, fremendo di gioia al sottile, irresistibile impulso di fare quello che Grazia del Cielo desiderava, dentro e fuori dal letto. Giù alle banchi- ne del porto, al pizzo estorto insieme agli scagnozzi dello stesso Milacar, muovendosi furtivamente per le strade del- le Radure e a monte del fiume per le consegne; talvolta in- seguiti dalla Guardia Cittadina, quando qualcuno veniva colto sul fatto e spifferava tutto, alle risse casuali in un vi- colo buio o nella sicurezza d’una abitazione, ai duelli obbligati con la spada o col pugnale; tutto molto suggestivo, inclusi gli scontri, troppo fottutamente divertente perché al- l’epoca gli sembrasse davvero pericoloso com’era.

«Adesso dimmi davvero perché sei qui» disse Grazia con dolcezza.

Ringil si rigirò e poggiò capo e collo sulla pancia dell’al- tro. La muscolatura era ancora intatta, soda sotto un lieve strato di adipe per la mezza età. vi fu solo un impercettibile movimento quando sostenne il peso della sua testa in- zuppata di sudore. Pigramente, Ringil alzò lo sguardo a os- servare le scene orgiastiche dipinte sul soffitto della camera di Grazia. Due stallieri e una giovane serva stavano facendo qualcosa d’improbabile con un centauro. Ringil rivolse un sospiro sconsolato verso l’alto a quelle creature perfettamente integrate nel loro piccolo mondo pastorale.

«Devo aiutare la famiglia» disse seccamente. «Devo ritrovare qualcuno, una cugina che si è messa nei guai.»

«E tu pensi che io abbia cominciato a muovermi negli stessi circoli del clan Eskiath.» La pancia che faceva da cu- scino a Ringil cominciò a sussultare per via della risata di Milacar. «Gil, hai sopravvalutato il mio ruolo e di parecchio, considerata la situazione attuale nel suo complesso. Ricorda, sono un criminale.»

«Sì, ho visto come rimani ancorato alle tue radici. Una grande casa del cazzo alle Radure, una cenetta con la Fratellanza della Palude e dignitari associati.»

«Possiedo ancora la residenza in via dei Carichi, se questo ti fa sentire meglio. E nel caso tu l’abbia dimenticato, io appartengo a una famiglia della Fratellanza.» Adesso nella voce dell’altro affiorava una leggera tensione. «Mio padre era un capitano esploratore, prima della guerra.»

«Sì, e il tuo bis-bis-bis-bis-eccetera bisavolo ha fondato la fottuta città di Trel-a-lahayn. Sapevo già che stavi per dir- lo, Grazia. E la verità è che quindici anni fa non ti saresti sognato di offrire della cortese ospitalità a casa tua a quel cazzone che, per combattere, va in giro con un coltellino al fianco. E non avresti neppure scelto di vivere da questa parte del fiume.»

Percepì i muscoli dello stomaco di Grazia contrarsi lievemente sotto la sua testa.

«Ti ho deluso?» domandò Milacar a bassa voce.

Ringil continuò a fissare il soffitto. Scrollò le spalle. «Dopo il ’55 è andato tutto a puttane, in una maniera o nell’altra abbiamo dovuto superarlo, ciascuno a modo suo. Perché tu dovresti essere diverso?»

«Sì.» Ringil si sollevò e si mise a sedere, ruotando leggermente il corpo per trovarsi faccia a faccia con Grazia del Cielo. Si mise a gambe incrociate e strinse le mani in grembo. «Dunque, vuoi aiutarmi a trovare questa mia cugina?»

Milacar fece la sua faccia da E-che-vuoi-che-sia. «Natural- mente. In che guaio si è cacciata?»

«È stata rapita. Da quel che ho potuto scoprire, quattro settimane fa è stata venduta all’asta, a Etterkal.»

«Etterkal?» Dal viso di Milacar l’espressione E-che-vuoi- che-sia scomparve di colpo. «È stata venduta legalmente?» «Sì, come pagamento per un brutto debito. vendita al- l’asta della Camera di Compensazione della Cancelleria; gli acquirenti di Dedalo sul Mare l’hanno notata e a quanto pare messa ai ceppi e portata via quello stesso giorno. Ma le scartoffie sono indecifrabili, o perdute, o io non ho corrotto i funzionari giusti. Ho questo schizzo di lei fatto a carboncino che sto mostrando in giro ma che nessuno vuole riconoscere, e non riesco a convincere anima viva a parlarmi di chi gestisce le cose a Etterkal. E comincio a stancarmi di essere gentile.»

«Sì, l’ho notato.» Grazia del Cielo scrollò la testa con aria perplessa. «Comunque, come cazzo ha fatto una figlia del clan Eskiath a finire al Dedalo?»

«Be’, in realtà non è una Eskiath. Come ti ho detto, è una cugina. Il suo cognome è Herlirig.»

«Oh oh. Sangue di palude, quindi.»

«Sì, e sposata persino con la famiglia sbagliata, dal punto di vista degli Eskiath.» Ringil avvertì un tono di irrita- zione e disgusto insinuarsi lentamente nella sua voce, ma non gliene poteva fregare un accidente. «Con un mercante. All’epoca i membri degli Eskiath ignoravano cosa stesse suc- cedendo, ma in realtà penso che anche se l’avessero saputo non avrebbero comunque mosso un dito per impedirlo.»

«Ah.» Milacar si guardava le mani. «Etterkal.»

«Proprio così. I tuoi vecchi amici Ringhio e BoccaCucita, tra gli altri.»

Ringil sollevò la testa. «Cosa succede, improvvisamente c’è qualche problema?»

Di nuovo silenzio. Da qualche parte ai piani bassi dell’edificio qualcuno stava versando dell’acqua in un grande con- tenitore. La cosa sembrò richiamare l’attenzione di Milacar.

Grazia del Cielo incrociò gli occhi e fece un sorriso teso, improvvisamente incerto. Non era uno sguardo che Ringil gli avesse visto spesso.

«Molte cose sono cambiate da quando te ne sei andato, Gil.» «Sì? Racconta un po’.» «Inclusa Etterkal. Dedalo sul Mare è un posto completamente diverso oggi, non lo riconosceresti più dai tempi della Liberalizzazione. voglio dire, si sapeva che la schiavitù sarebbe stata abolita, era ovvio. Papavero ne blaterava in continuazione, e pure BoccaCucita, quando si riusciva a fargli spiccicare parola.» Adesso sembrava che le parole uscissero dalle labbra di Milacar in modo stranamente frettoloso, quasi temesse di essere interrotto. «Ma non puoi immaginare quanto Etterkal sia cresciuta, Gil; hanno fatto davvero un mucchio di soldi. Molto più di quanto ne abbiano mai guadagnato col flandrijn o il crystal.»

Per un momento sulle labbra di Milacar passò nuovamente il fremito di un sorriso, ma si spense in fretta. «Quel genere di soldi compra protezione, Gil. Non si può più gira- re per Etterkal a fare i delinquenti come facevamo quando era tutto un pullulare di puttanieri e vita di strada.»

«Ecco, mi deludi un’altra volta.» Ringil mantenne un tono leggero, mascherando un’inquietudine strisciante. «Al tempo non c’era strada a Trelayne in cui non ti saresti fatto avanti.»

«Te l’ho detto, le cose sono cambiate.»

«Come quella volta che provarono a tenerci lontani dal- la regata dei palloni delle Radure. La mia gente ha costruito questa fottuta città, non riusciranno a rinchiudermi nel recinto della feccia mentre i loro fottuti teppisti se ne vanno in uniformi di seta.» Non c’era più leggerezza nella voce, che adesso imitava il Milacar di tanto tempo prima. «Ricordi?»

«Ascolta…» «Naturalmente ora ci abiti, nelle Radure.» «Gil, te l’ho detto…» «Le cose sono cambiate, già. L’ho sentito quando l’hai detto la prima volta.»

E adesso lui non riusciva più a celarla, la sensazione di perdita che gli colava dentro, l’ennesima perdita schifosa, che si infradiciava dello stesso sentore di tradimento, più antico e vago, che lo aveva avviluppato come in un vortice, anno dopo anno – tutti sprecati – e che adesso aveva un sapore amaro e pungente sulla lingua, come se Grazia del Cielo fosse divenuto assenzio in quegli ultimi secondi pulsanti e contratti. Il piacere si faceva perdita, il desiderio rimpianto ed ecco, improvvisamente, la stessa disgusto- sa spirale di incasinati sensi di colpa che smerciavano nei templi e negli addestramenti spietati e i richiami al lignaggio; i predicozzi di Gingren, i soprusi rituali e le sterili pro- ve di virilità inferte alle nuove reclute all’accademia e tutte le solite fottutissime cose su cui uomini in toghe e uniformi mentivano con le loro solennissime ciance e…

Scese dal letto come se ci fossero scorpioni nelle lenzuola, gli ultimi brandelli di piacere residuo ormai dissolti. Ab- bassò lo sguardo su Milacar, e l’odore dell’altro divenne qualcosa che improvvisamente voleva togliersi di dosso.

«Vado a casa» disse piattamente. Si mise a cercare i propri vestiti sul pavimento. «Gil, loro hanno un Dwenda.» Raccolse i calzoni, la camicia, le calze stropicciate. «Sicuro, come no.» Milacar lo guardò per un momento e poi, bruscamente, scese dal letto e gli fu addosso come un gatto da combatti- mento Yhelteth. Afferrandogli le mani, lo fece cadere lanciandosi con tutto il corpo, schiacciandolo in una lotta ravvicinata. Un’eco rabbiosa della danza corpo a corpo che avevano appena fatto a letto. Col profumo acre di Grazia del Cielo e la forza del combattente di strada che gli grugniva addosso.

In un momento diverso avrebbe lasciato correre, ma nel- la testa di Ringil indugiava ancora una rabbia intensa, la frustrazione a pizzicargli i muscoli, sussurri allettanti di riflessi offuscati e affilati negli anni della guerra. Si districò dalla presa di Milacar con una ferocia che aveva dimenticato di possedere e, con una mossa Yhelteth a mano nuda, atterrò il compagno, in un intrico di arti. Gli rovinò addosso con tutto il peso. Milacar emise una sorta di fischio, che troncò improvvisamente il grugnito furente. Ringil infilò un pollice nella bocca di Grazia del Cielo a mo’ di gancio e lo sollevò in equilibrio precario, l’altro a qualche centimetro dal suo occhio sinistro.

«Non provare più a farmi una stronzata simile» sibilò Gil. «Non sono uno dei tuoi tirapiedi col coltello; io ti ammazzo.» Milacar stava soffocando e si dibatteva. «Vaffanculo, stavo cercando di aiutarti. Ascoltami: hanno un Dwenda a Etterkal.»

Sguardi agganciati. I secondi si sfilacciavano. «Un Dwenda?»

Gli occhi di Milacar dicevano sì, dicevano che almeno lui ci credeva.

«Stai parlando di un fottuto Aldrain?» Ringil mollò la presa su Grazia del Cielo. «Un membro del Popolo Scomparso, proprio qui a Trelayne, che Hoiran ti fulmini?»

«Sì, ti sto dicendo questo.» Ringil scese dal corpo dell’altro. «Spari solo cazzate.» «Grazie.» «Be’, è così, o hai fumato troppa della tua scorta.» «So quello che ho visto, Gil.» «Ci sarà un motivo per cui è chiamato il Popolo Scomparso,

Grazia, che ne dici? Sono scomparsi. Anche i Kiriath li ricordavano solo nelle leggende.»

«Sì.» Milacar si tirò su. «E prima della guerra, non c’era anima viva che credesse nei draghi.»

«Non è la stessa cosa.»

«Bene, allora spiegamelo tu.» Grazia del Cielo attraversò la camera da letto con passo pesante e si avvicinò a una fila di stupende vestaglie stile Impero a un attaccapanni.

«Spiegare cosa? Che un ciarlatano albino col trucco vistoso intorno agli occhi vi tiene in scacco e vi fa scappare a nascondervi come un branco di pastori Majak quando si sente il rombo del tuono?»

«No.» Milacar si coprì le spalle con una vestaglia di seta color prugna, se la infilò e annodò la cintura. «Spiegami come mai la Fratellanza della Palude ha mandato tre delle sue spie migliori a Etterkal, uomini con l’esperienza d’una vita e volti che nessuno, eccetto il capo della loro Loggia, avrebbe potuto collegare alla loro attività, e una settimana dopo le uniche cose a tornare sono state le loro teste.»

Ringil gesticolò. «A quanto pare questo albino figlio di puttana ha fonti migliori delle tue, e ci sa fare col coltello.» «Gil, mi fraintendi.» Grazia del Cielo abbozzò nuova- mente un sorriso incerto. «Non ho detto che questi uomini sono morti, solo che le uniche cose a tornare indietro sono state le loro teste. Tutte vive, innestate al collo su un ceppo d’albero di circa quindici centimetri.» Ringil lo fissò.

«Sì, proprio così. Spiegami un po’ questo.» «Tu l’hai visto?» Un cenno di assenso teso. «Hanno portato una delle teste a un incontro della Loggia. Mettono il collo in un vaso con dell’acqua e in un paio di minuti quella cosa merdosa spalanca gli occhi e riconosce il maestro della Loggia. Apre la bocca, cerca di parlare, ma non ha né gola né corde voca- li, così l’unica cosa che si riesce a sentire è una specie di ticchettio, le labbra che si muovono, la lingua di fuori, e poi un fottutissimo piagnucolio, le lacrime che gli colano sul viso.» Milacar deglutì vistosamente. «Dopo circa cinque minuti di quel bello spettacolo, tolgono l’affare dall’acqua e festa finita. Le prime ad arrestarsi sono le lacrime, come prosciugate, e poi tutta la testa semplicemente smette di muoversi, immobilizzandosi lentamente, come un vecchio moribondo in un letto. Solo che non è morta per un cazzo. Appena la rimetti nell’acqua» accennò con la mano, impotente. «Di nuovo, sempre uguale.»

Ringil se ne rimase lì nudo; l’Arcoluce entrava dal balcone aperto e l’aria improvvisamente si era fatta più fredda. Si voltò a guardare la notte, come se udisse un richiamo provenire da qualche parte oltre le finestre.

«Hai del crystal?» chiese a voce bassa.

Milacar annuì indicando il mobile della toeletta all’altro capo della stanza. «Guarda nel cassetto in alto a sinistra, un paio di canne sono già pronte. Serviti pure.»

Ringil attraversò la camera e aprì il cassetto. Tre cilindri di foglie ingiallite rotolarono sul fondo del piccolo scomparto di legno. Ne prese uno, si avvicinò alla lampada che era accanto al letto e si curvò per accenderlo allo stoppino. Le scaglie di crystal dentro il cilindro crepitarono alla fiammata e l’odore aspro gli procurò un formicolio nelle narici. Aspirò profondamente e inalò il vecchio, familiare aroma nei polmoni. Una sferzata di calore, il freddo che si allontanava. Il crystal gli andò alla testa come fuoco ghiacciato. Si voltò a guardare il balcone, sospirò e uscì, sempre nudo, accompagnato da una scia di fumo.

Poco dopo, Grazia del Cielo lo seguì.

Fuori, si vedevano i tetti stendersi da un capo all’altro delle Radure fino al fiume. Le luci degli altri palazzi, simi- li a quello di Milacar, splendevano tra gli alberi dei giardini e le strade sinuose punteggiate di luci, viottoli che seco- li prima erano stati semplici sentieri attraverso la palude. L’estuario si curvava verso l’interno a occidente, le costruzioni del vecchio porto sulla riva opposta adesso spiccava- no demolite per fare spazio a giardini ornamentali e a costosi templi di ringraziamento agli dei Naom.

Ringil si curvò sulla balaustra del balcone, trattenne un ghigno e si sforzò di essere onesto con se stesso nel giudicare i cambiamenti. Sin dall’inizio, alle Radure era circolata molta ricchezza, ma in passato c’era meno compiacimento, vi si ergevano le dimore dei clan che, sull’altra sponda del fiume, vedevano scaricare le merci che avevano contribuito alla nascita del loro benessere. Ora, con la guerra e la ricostruzione, le banchine erano state trasferite più a valle, fuori dal campo visivo, e le uniche strutture che sulla sponda opposta fronteggiavano i palazzi delle Radure erano i templi, massicci echi di pietra della rinnovata devozione e fede dei clan nel proprio legittimo dominio.

Ringil esalava pennacchi di fumo acre. Sentì, senza voltarsi, che Milacar lo aveva seguito sul balcone.

«Quel soffitto ti farà arrestare, Grazia» disse Gil con distacco.

«Non in questa parte della città.» Milacar si unì a lui sul- la balaustra, inalò l’aria notturna delle Radure come fosse un profumo. «La Commissione non fa visite a domicilio da queste parti, dovresti saperlo.»

«Dunque alcune cose non sono cambiate, dopotutto.» «No, i punti salienti restano.» «Già, ho visto le gabbie mentre arrivavo.» Un improvviso, glaciale ricordo di cui avrebbe fatto a meno. Fino a due giorni prima si era illuso che fosse sepolto al sicuro, poi la carrozza di sua madre aveva attraversato sferragliando il ponte sulla strada acciottolata verso la Porta Orientale. «Kaad gestisce ancora le cose alla Cancelleria?»

«Sì, questo non è cambiato, e sembra che lo faccia ringiovanire ogni giorno di più. Hai notato come il potere sembra nutrire alcuni e succhiare il sangue ad altri? Bene, Murmin Kaad appartiene senza dubbio al primo gruppo.»

Nella Sala delle Udienze, tolgono le manette a Jelim, lo immobilizzano e lo strappano a forza dalla sedia, il corpo che si contorce. Il ragazzo respira affannosamente per l’incredulità, tossisce, biascica urla di diniego per la condanna emessa, un groviglio di implorazioni che fa venire la pelle d’oca agli osservatori in tribuna, fa sudare il palmo delle mani e conficca aghi di ghiaccio, dolorosi come cocci di vetro, nella carne di braccia e gambe avvolte negli abiti caldi.

Tra Gingren e Ishil, Ringil siede pietrificato.

E mentre gli occhi del ragazzo condannato si dilatano e arrovesciano come quelli di un cavallo in preda al panico, mentre il suo sguardo tenta di aggrapparsi alle facce dei notabili radunati sopra di lui, come se fosse in cerca di una salvezza da fiaba che in qualche modo possa farsi largo là dentro, improvvisamente vede Ringil. I loro occhi si incontrano e Ringil si sente come se lo avessero pugnalato. Incredibilmente, Jelim, dimenandosi, riesce a liberare un braccio e lo punta con un gesto di denuncia verso l’alto, e urla: “È stato lui, vi prego, prendete lui. Non volevo farlo, è stato lui, È STATO LUI, PRENDETE LUI, È STATO LUI, LUI, NON IO…”.

E lo trascinano via, in una scia di grida che tutti i presenti san- no essere solo l’inizio, solo la più infima delle incontenibili agonie cui darà sfogo il giorno seguente. Nella gabbia.

Giù, in sala, sul palco sopraelevato dei giudici, Murmin Kaad, che fino a quel momento ha seguito il procedimento con calma impassibile, alza lo sguardo e incrocia a sua volta quello di Ringil.

«Figlio di puttana.» Un tremore nella voce cui sperava di infondere un tono piatto. Aspirò dalla canna di crystal sperando che aiutasse. «Avrei dovuto farlo uccidere nel ’53, quando ne ebbi la possibilità.»

Ringil guardò di sbieco, colse il modo in cui Grazia del Cielo lo stava fissando. «Che c’è?»

«Oh, mio bel giovane» Milacar disse dolcemente. «Pensi davvero che sarebbe stato così semplice?»

Categorie: estratti, libri · Tag: Edoardo Rialti, R. K. Morgan

E-mail (non verrà pubblicata) (richiesto)

Avvisami via e-mail della presenza di nuovi commenti.

Copyright 2022 minima&moralia · RSS Feed